C' era una volta una fornaia, che aveva una figliuola nera come un tizzone e brutta più del peccato mortale. Campavan la vita infornando il pane della gente,
e Tizzoncino, come la chiamavano, era attorno da mattina a sera:
- Ehi, scaldate l'acqua! Ehi, impastate! - Poi, coll'asse sotto il braccio e la ciambellina sul capo, andava di qua e di là a prender le pagnotte e le stiacciate da infornare;
poi, colla cesta sulle spalle, di nuovo di qua e di là per consegnar le pagnotte
e le stiacciate bell'e cotte.
Insomma non riposava un momento.
Tizzoncino era sempre di buon umore. Un mucchio di filiggine; i capelli arruffati, i piedi scalzi e intrisi di mota, in dosso due cenci che gli cascavano a pezzi;
ma le sue risate risonavano da un capo all'altro della via.
- Tizzoncino fa l'uovo - dicevan le vicine.
All'Avemaria le fornaie si chiudevano in casa e non affacciavano più nemmeno la punta del naso. D'inverno, passava... Ma d'estate, quando tutto il vicinato si godeva il fresco e il lume di luna? O che eran matte, mamma e figliuola, a starsene tappate in casa con quel po' di caldo?... Le vicine si stillavano il cervello.
- O fornaie, venite fuori al fresco, venite!
- Si sta più fresche in casa.
- O fornaie, guardate che bel lume di luna, guardate!
- C'è più bel lume in casa.
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