Bartolomeo Cavarozzi (detto B. de’ Crescenzi). – Nacque a Viterbo attorno al 1590, come si deduce dal Mancini che – scrivendo grosso modo nel 1620-21 – lo dice “d’età di 30 anni incirca” (I, p. 256; II, n. 1156). Venuto a Roma “fanciulletto”, lavorò da prima con il viterbese Tarquinio Ligustri e poi, introdotto in casa dei marchesi Crescenzi, fu da questi “trattenuto et allevato come dei loro”, nonché “ridotto a gran perfettione” (Mancini, I, p. 256). Di qui non solo il nome di Bartolomeo de’ Crescenzi, con cui è noto il C., ma anche il suo alunnato con Cristoforo Roncalli, già da tempo pittore di casa dei Crescenzi.
Le fonti – e in particolare il Baglione – ricordano che in questo primo periodo il C. dipinse, oltre a una serie di quadri per i Crescenzi, una pala con S. Carlo Borromeo, per l’altare della terza cappella destra di S. Andrea della Valle, e una S. Orsola e le sue compagne, per la distrutta chiesa di S. Orsola a piazza del Popolo. Quest’ultima pala, oggi in S. Marco a Roma, è datata 1608 e mostra stretti legami con lo stile del Roncalli (Toesca, 1960); mentre la prima, purtroppo perduta, deve essere sicuramente più tarda perché la cappella cui era destinata è compresa nella parte della chiesa costruita dopo il 1605e terminata circa nel 1613(H. Hibbard, Carlo Maderno, London 1971, pp. 149 ss.).Pertanto, se è possibile ipotizzare che tale quadro sia stato dipinto verso il 1614, ciòsignifica che in questo periodo il C. stava ancora consumando gli ultimi momenti della sua “pratica” roncalliana prima di passare a quella cosiddetta caravaggesca. Infatti, mentre il Mancini accredita che fu questo perduto S. Carlo Borromeo a dare “col, suo colorito et disegno” (I, p. 256) una certa notorietà al C., il Baglione testimonia che, dopo aver dipinto tale quadro, il C. “cangiò gusto, e diedesi a ritrarre dal naturale con gran diligenza e con finimenti di grand’amore accompagnati” (p. 287).
Sembra importante precisare il momento in cui avvenne questo passaggio non solo per una, ovvia, puntualizzazione della carriera del C. quanto, soprattutto, perché ciò permette anche di stabilire quando, all’incirca, G. B. Crescenzi, suo protettore, dovette dar vita, nel suo palazzo presso il Pantheon, a quella “accademia” per giovani artisti in cui − come ricorda il Baglione (p. 365) − egli li faceva lavorare “tanto di giorno quanto di notte tempo, accioche avessono tutti maggiore occasione d’apprendere le difficoltà dell’arte; et anche talvolta havea gusto di far ritrarre dal naturale, et andava a prender qualche cosa di bello, et di curioso, che per Roma ritrovavasi di frutti, d’animali et altre bizzarrie, e consegnavala a quei giovani che la disegnassero, solo perché divenisser valenti et buoni maestri, si come veramente adivenne”. In altri termini ciò significa non solo che l'”accademia” dovette iniziare la sua attività all’incirca verso la metà del secondo decennio del Seicento; ma anche, proprio perciò, che in essa non si doveva essere di fede così strettamente caravaggesca − e soprattutto di un caravaggismo di prima mano − come generalmente si è ritenuto. Infatti, se in tale “accademia” si praticava certamente anche una pittura di tipo naturalistico, va però tenuto presente che questa era ormai di gran moda e aveva un largo mercato nella Roma di quegli anni. Il che, inoltre, fa sollevare anche qualche dubbio sul disinteresse dei motivi per cui il Crescenzi promosse tale “accademia”.
Quanto detto va tuttavia tenuto presente per valutare nel concreto la carriera pittorica del C. il quale − stando alle fonti − più tardi, verso la fine del 1617, accompagnò il suo protettore in Spagna dove questi si recò al seguito del cardinal Zapata. Tale permanenza in Spagna, durata probabilmente fino alla primavera del 1619, dovette conquistare al pittore un notevole mercato, come sembra dimostrare il numero di sue opere che, in originale o in replica, vi si trovano. Inoltre, come lascia intendere il Baglione, subito dopo il ritorno, il C. dipinse a Roma, per la chiesa delle monache benedettine di S. Anna de’ Funari, una pala (anche questa purtroppo perduta) con S. Anna, la Vergine e il Bambino, fatta “con buon gusto” e “tocco gagliardo”: qualificazione, quest’ultima, laquale farebbe supporre che la sua “maniera finita con esattezza del naturale, e con buon stile condotta” (Baglione, p. 287), abbia in qualche modo potuto risentire, forse in un’accentuazione delle qualità tonali e materiche del colore, di quella permanenza in Spagna. Infatti l’aggettivo “gagliardo” è in genere usato dal Baglione per qualificare la pittura veneta (si veda, a p. 64, la vita di Francesco Bassano: “pittura gagliarda alla veneziana”), che, com’è noto, era allora ampiamente diffusa e ricercata in Spagna.
Tuttavia è a quest’ultimo periodo dell’attività del maestro che deve risalire l’opera che è servita quale sicuro termine di confronto per la ricostruzione del suo incerto catalogo. Si tratta della Visitazione, per la cappella del municipio di Viterbo, la cui consacrazione sull’altare è documentata nel maggio 1622. Oltre alle due, già ricordate, opere documentate (S. Orsola e le sue compagne, 1608, e La Visitazione, 1622), il catalogo è composto da un ristretto numero di dipinti, molti dei quali noti anche in replica, che, dopo incerte vicende attributive, sono ora generalmente accettati come del maestro.
Si tratta del S. Girolamo scrivente (Firenze, Galleria Palatina), dello Sposalizio mistico di s. Caterina (Madrid, Museo del Prado), della Sacra Famiglia (Torino, Pinacoteca Albertina) e della Vergine con il Bambino (Roma, Galleria Spada). A queste più recentemente sono state aggiunte o riproposte altre attribuzioni tra le quali conta ricordare: da parte del Faldi (e sembra unanimemente accettate dalla critica) un rovinatissimo S. Isidoro Agricola (Viterbo, chiesa di S. Angelo in Spata) e una Madonna con il Bambino (Viterbo, cappella Calabresi nella chiesa di S. Ignazio); da parte del Moir un Gesù Bambino dormiente (Madrid, Museo del Prado); da parte del Pérez-Sánchez due differenti tele raffiguranti la Madonna con il Bambino (la prima a Toledo, Colegio de Doncellas Nobles, e la seconda – che è quasi la ripresa in controparte della Madonna della seggiola di Raffaello − a Madrid, propr. conte de Noyalde) e una S. Caterina (Murcia, Museo de Bellas Artes); e, da parte del Volpe, una indiscutibile Madonna con il Bambino e due angeli (giàLondra, vendita Christie’s, 1964), e inoltre, nel quadro di problematici quanto estremamente poco sicuri rapporti di collaborazione pittorica tra il C. e il Crescenzi, il S. Giovanni Battista della cattedrale di Toledo (attribuzione già proposta dal Longhi al C.) nonché un dipinto con Due musicisti e natura morta (già Bergamo, coll. Perolari).Tralasciando di entrare nel merito di tale corpus di attribuzioni, sembra più utile ricordare come, anche quelle ora unanimemente accettate, abbiano vagato a lungo con il nome del Gentileschi e con quello di Fiasella, che il C. poté frequentare negli anni tra il 1615 e il ’20 quando tale pittore genovese soggiornò a Roma. Tutto ciò va infatti tenuto presente non solo per sottolineare, con il nome del Gentileschi, uno dei tramiti essenziali attraverso cui il C. dovette avvicinarsi al caravaggismo né soltanto per individuare, con quello del Fiasella, un esito parallelo alla sua ricerca, quanto soprattutto per indicare alcune delle esperienze che il C. mediò nella sua pittura. Di questa d’altra parte è estremamente difficile − sulla base delle nostre attuali conoscenze − proporre una cronologia che ne spieghi coerentemente il percorso: anche perché questo sembra esser stato sollecitato, più che dalle esigenze di una propria e autonoma ricerca, da quelle del mercato italo-spagnolo alla cui soddisfazione − come molti dei suoi contemporanei ed amici − il C. dovette soprattutto dedicarsi. E, a dimostrazione di quest’ultimo assunto, ci sono sia le repliche e le varianti delle sue opere, sia l’uso pressoché standardizzato delle tipologie caravaggesche, sia, infine, la riproposizione in termini aggiornati dei grandi modelli raffaelleschi.
Sembra tuttavia indubbio che, voltosi − dopo la prima fase di ascendenza roncalliana − verso il caravaggismo inteso soprattutto come possibilità di modellare, tramite la luce, le forme della composizione, il C. − che riesce in tal modo a toccare un momento di straordinaria individuazione del reale (quale può essere soprattutto esemplificato nel S. Girolamo scrivente)−si sia quindi orientato verso la ricerca di una sorta di bellezza ideale che, inglobando il naturalismo e il luminismo di ascendenza caravaggesca, gli fa impostare in termini classicisti le sue opere fino al punto di risentire in ciò dell’esperienza dei bolognesi e, in particolare, del Domenichino. Come tale il C. sembra appartenere a quel variegato filone artistico − i cui limiti e il cui significato non sono stati ancora interamente chiariti − che nella Roma del primo trentennio del Seicento tentò di portare avanti − parallelamente, anche se su basi diverse, rispetto a quella dei bolognesi − la ricerca di una pittura in gradodi ritrovare l'”idea” nella “natura”: o meglio di assumere i caratteri fenomenici della “natura” all’interno di un contesto ideale.
In conclusione, resta il fatto che l’importanza del C. non sembra possa esser ricercata nella sua dolce e intimistica vena poetica né nel peso che egli poté avere sul complesso panorama della pittura romana del primo quarto del Seicento (e si tenga presente che il suo nome − come ha mostrato il Faldi − fu presto confuso e dimenticato anche dagli eruditi viterbesi) quanto soprattutto − come già indicò a suo tempo il Longhi − nell’aver costituito una di quelle “congiunture” italo-spagnole che sono alla base della cultura dei grandi interpreti della pittura spagnola del XVII secolo: in particolare, per quanto riguarda il C., dello Zurbarán e del Murillo.
Il C. morì a Roma il 21 sett. 1625 (Baglione, p. 287).
Da Treccani.it