Figlio di Giuseppe e Giuseppina Pittolo, nacque a Quargnento (Alessandria) l’11 febbraio del 1881. Nel 1899-1900 il C. fu per la prima volta a Parigi, poi a Londra; ma i corsi regolari li seguì all’Accademia di Brera, alla scuola di Cesare Tallone. Vide molta pittura antica e moderna a Londra e a Parigi; a Milano guardava soltanto a Segantini, Previati, Mosé Bianchi. Per quel tempo, la sua era una “informazione” abbastanza vasta, tale da fargli capire, per via di confronto, che l’arte borghese italiana del primo Novecento non poteva suggerirgli alcuna idea innovatrice.
La presenza eversiva di Marinetti, cosmopolita, insofferente del cumulo delle tradizioni scolastiche e del bozzettismo ottocentesco, di una letteratura provinciale e, nei casi peggiori, accademica, soggiogò immediatamente lo spirito anarchico del ribelle Carrà. La partecipazione del C. al futurismo (fu uno dei redattori del Manifesto)ben si spiega tenendo conto, di una prima confusa esperienza di letture anarcoidi e libertarie, che aveva preparato il terreno alla ribellione contro la borghesia e contro la filosofia crociana. Si manifestavano allora in lui i sedimenti di una letteratura decadente, in cui marxismo e idealismo apparivano in fiera lotta. Il C. aveva un temperamento rude che non si temperò nemmeno con l’incontro con Boccioni, agile dialettico e vivacissima intelligenza del composito gruppo futurista. Accanto a Marinetti, incominciò per il C. una intensa stagione creatrice, cui aveva dato qualche spunto attivo l’esperienza divisionista. Dal 1909 al 1915, l’attività futurista fu intensa, per il C., in Italia e all’estero.
Nella Galleria di Milano, la conoscenza di Braque e di Picasso servì a trasformare il linguaggio futurista, ancora grezzo e incerto, in un sistema pittorico coerente con la scomposizione dei piani e non con le linee di forza.
Accanto alla Galleria di Milano, Donna al balcone (Simultaneità:Milano, coll. R. Jucker) è l’opera più ricca d’indicazioni per definire una ricerca iniziata in sede milanese, sotto gli auspici lombardi di Cesare Tallone, continuata all’insegna del divisionismo di Segantini e di Previati, e risolta con quel punto d’arrivo, nel 1912, che veniva a negar tutto, nel nome di Cézanne e del cubismo.
Nei suoi viaggi a Parigi e a Londra il C. aveva saputo vedere, aveva saputo riconoscere quale fosse il vero indirizzo dell’arte moderna. Nella compenetrazione della figura, con l’ambiente, attraverso la ricostruzione strutturale delle forme ispirata dalla pittura cubista, il C. aveva creato quella sintesi di elementi linguistici cubisti e di intuizioni futuriste che Boccioni, in sede teorica, aveva più volte negato. Il C. vedeva col suo occhio romanico la “simultaneità”, costruendo una immagine, d’un rilievo scultoreo, per masse contrapposte che, nella Donna al balcone, facevano blocco in una soluzione plastica nuova, certamente più plausibile dei collages e delle composizioni del ’14 e del ’15, più fedeli ai principi della estetica futurista. Ma quella volontà costruttiva era la componente fondamentale dell’arte del C.; era la base sulla quale, consumata l’esperienza dell’attivismo futurista, il pittore avrebbe creato gli spazi poetici della nuova avventura “metafisica”.
Nel 1915 la campagna interventista ebbe il C. tra i più fieri sostenitori, ma ormai il pittore si era allontanato dal futurismo. Si avvicinò in quel periodo al gruppo fiorentino della Voce (diretta allora da G. De Robertis), alla quale collaborò con alcuni scritti significativi (Parlata su Giotto, 31 marzo 1916; PaoloUccello costruttore, 30 sett. 1916).
Il 1916 e il 1917 furono gli anni della “seconda rivelazione” per il C.: quella appunto dell’arte metafisica, durante il soggiorno a Ferrara – dove venne ricoverato nell’ospedale militare dopo poco che era stato chiamato alle armi -, accanto a G. De Chirico. Nel 1916 dipinse Il gentiluomo ubriaco (1916: Milano, coll. A. Frua). Vennero poi, nel 1917, La camera incantata (Milano, coll. E. Jesi), La musa metafisica (ibid.), Madre e figlio (ibid.), Il cavaliere occidentale (Milano, coll. G. Mattioli), Solitudine (Zurigo, coll. Giedion), ai quali si aggiunsero, nel 1918, l’Ovale delle apparizioni (Milano, coll. R. lucker) e, nel 1921, L’amante dell’ingegnere (Milano, coll. Mattioli) e Il pino sul mare (Roma, coll. A. Casella).
Il C., riallacciandosi a Ferrara all’arte italiana del Quattrocento, scopriva un rapporto certamente più persuasivo di quello tentato con Il fanciullo prodigio (1915: Torino, coll. privata), in un ritorno all’arte dei primitivi, sia pure partendo da Giotto.
La pittura “metafisica” era più congeniale al C. delle battaglie futuriste, ironizzate dal Longhi, non troppo tenero, d’altronde, nemmeno con le surreali fantasie dechirichiane: “Il quattrocento diveniva il palcoscenico per l’opera delli pupi metafisici, per i convitati di pietra” scriveva, alludendo al teatrino prospettico e ai manichini (C. C., Milano 1937).
A Ferrara, il C. poté rinnovare la propria visione, trasformando i suggerimenti delle architetture antiche e di una scuola pittorica, in cui emergevano Cosmè Tura, Ercole De Roberti e Francesco del Cossa, nella realtà di una intuizione poetica attuale, densa di significati enigmatici, allusiva e spesso bizzarra. Erano possibili gli equivoci “letterari” nelle storie mitologiche dei manichini e nelle stesse composizioni di oggetti, disparati e discordi; ma il nucleo del motivo fantastico si sviluppava quasi sempre sullo schema architettonico dei piani geometrici associati come in una ideale pittura preastratta.
èindubbio che De Chirico, pur “cresciuto in una tradizione per nulla italiana” (Longhi), abbia offerto alla severa meditazione del C. l’idea di uno spazio arcano, in cui si fissano “apparizioni” senza tempo, ma oggetti e figure sono inseriti, come valori strettamente pittorici, in un contesto unitario e autonomo (Camera incantata [1917]:Milano, coll. Jesi, e Penelope [1917]:Milano, coll. C. Frua). è per il C. un momento di assoluta libertà fantastica, al di fuori di ogni richiamo o ritorno all’ordine. I manichini erano fantasmi reali, visti da lui a Ferrara, appoggiati a un muro e illuminati da un raggio di luna, e gli oggetti acquistavano la magia segreta dei rapporti spaziali e delle illuminazioni silenti (Natura morta con la squadra [1917: Milano, coll. Jucker]; Natura morta metafisica col busto in gesso [1919: Milano, coll. Jesi]). C’è nell’arte del C. una lenta evoluzione, dalla quale nascono i nuovi motivi, sui primi ricordi giotteschi, di Ilpino solitario e di Il pino sul mare (1921). “Con questo dipinto – scrisse in La mia vita – io cercavo di creare, per quanto le mie capacità lo consentissero, una rappresentazione mitica della natura”. Si avvertiva già l’inizio di quell'”ordine nuovo”, che egli andava maturando con studi appassionati sulla “realtà naturale” dal 1918 in poi, nel superamento dei motivi più propriamente dechirichiani, evidenti in Madre e figlio, La musa metafisica, e L’ovale delle apparizioni.
Nel 1919, tornato a Milano, si sposò con Ines Minoja dalla quale ebbe, nel 1922, l’unico figlio, Massimo. Nel 1918 aveva iniziato la collaborazione alla rivista Valori plastici diretta da M. Broglio; e dal 1922, fino al 1938, fu critico d’arte del quotidiano L’Ambrosiano.Dal 1939 al 1952 fu professore all’Accademia di Brera.
Soggiornò nell’estate del 1921 a Moneglia, e nel 1923 a Camogli: si avviava così alla riscoperta della natura, “a contatto col mare, con le rupi solitarie e i vasti cieli della Liguria” (Longhi). E tale “riscoperta” assume l’aspetto, nel 1923, delle Vele nel porto (Firenze, coll. Longhi), una delle opere più concluse, nella semplicità costruttiva di uno schema giottesco elementare; in netta antitesi con l’impressione, con la rapida nota dal vero.
Sulla via iniziata con la Natura morta con la squadra attraverso un processo di eliminazione del particolare descrittivo, il C. riusciva ad esprimere il senso del mistero, che investe ogni aspetto e ogni gesto del vivere quotidiano, nella messa in scena trecentesca di L’attesa (1926: Roma, coll. A. Casella), che ha la sospensione attonita e l’incanto dell’attimo, in cui qualcosa “deve accadere”.
Roberto Longhi, che del C. è stato il critico e lo storico più attendibile, dice che L’attesa è “l’aspro tentativo d’ingranare le solitudini astratte della metafisica e la nuova cubatura paesistica in un soggetto intinto in quella poetica paesana forse messagli nell’orecchio da certi antichi toscani”. E la nuova idea del paesaggio si precisa, dopo altre prove, rinforzata da elementi cezanniani nel Meriggio (1927: Milano, coll. nel Cancello (Pilastri rossi, 1930: Roma, Gall. naz. d’arte mod.). Ma il cezannismo riguarda, ancora una volta, le strutture formali, mentre si fa luce, nelle composizioni ispirate dalle marine della Versilia (dal 1926, per diversi anni, l’artista passò l’estate a Forte dei Marmi), il ricordo delle pittura di Seurat, il quale interpreta modernamente le architetture quattrocentesche di Piero, velandole appena sotto lo sfarfallio luminoso del puntinismo scientifico. Il C. le pietrifica, le rende solide e compatte, trasferendo nelle severe marine tirreniche il sentimento dello spazio che animava le pagine fluviali di Une baignade e della Grande Jatte.Questo riferimento a Seurat è evidente soprattutto in I nuotatori (1932: Milano, coll. A. Giovanardi) e nel Barcaiolo (1930: Milano, coll. Pecorini-Zambler) e, con qualche ritorno metafisico, nel Mattino al mare (1928: Milano, coll. Mattioli) e nel Paesaggio marino (1932: Milano, coll. Jesi).
Tuttavia il C. più maturo, all’apice di una esperienza artistica troppo brevemente tracciata, il C. più vicino alla propria natura è già in nuce nel Cinquale (1926: Roma, coll. Giardini Caponeri) e nella Foce del Cinquale (1928: Milano, Civica Gall. d’arte mod.), dove l’orizzonte si allarga in un nuova prospettiva romantica, nello spazio più proprio alla contemplazione del solitario.
La Versilia è il luogo poetico in cui il C. inquadra le spiagge deserte coi capanni allineati, le marine agitate al soffio del libeccio, i moli con le barche e i velieri sotto un cielo minaccioso, i bagnanti come statue che sorgono dall’acqua, le case rustiche tra gli alberi. Alla Versilia rimase fedele, pur tra le parentesi dei viaggi, dei ritorni a Venezia, dei riposi in Valsesia, perché gli ricordava le origini, le ispirazioni degli antichi, in una solitudine non offesa dalle folle fragorose dei turisti di oggi. Vi aveva trovato la sua vena romantica, ma, come egli stesso scrisse nella sua autobiografia (La mia vita, 2 ediz., Milano 1945), la sua preoccupazione maggiore era questa: “Per me… non si può parlare di espressione di sentimenti pittorici senza tener calcolo soprattutto di questi elementi architettonici che subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore”.
Così dai Capanni sul mare (1937: Milano, coll. Jesi) il C. poté allargare la propria visione a Chiaravalle (1938: Firenze, collez. R. Longhi), alla Prostituta (1945: Milano, coll. Carrà), a Venezia (1946: Milano, coll. C. Tosi), alla Uvacon melograni (1951:Milano, coll. Carrà), a Marina a Camogli (1957: Milano, coll. A. Spagnolo), a Casa di Merate (1959: coll. Carrà), e a tante altre riprese di vecchi motivi, negli ultimi anni, Il C. conosceva le leggi che regolano la divisione armonica dei piani e degli spazi, e a quelle si affidava nella costruzione di un ordinato mondo fantastico. In ogni opera si sforzava di raggiungere la dimensione umana e morale degli antichi, che gli somigliavano: i creatori di santi, di angeli e di mostri delle cattedrali romaniche. Perché il C. era davvero il più antico e il più italiano dei pittori del Novecento.
Morì a Milano il 13 apr. 1966.
Da Dizionario biografico Treccani
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Nella Galleria di Milano, la conoscenza di Braque e di Picasso servì a trasformare il linguaggio futurista, ancora grezzo e incerto, in un sistema pittorico coerente con la scomposizione dei piani e non con le linee di forza.
Accanto alla Galleria di Milano, Donna al balcone (Simultaneità:Milano, coll. R. Jucker) è l’opera più ricca d’indicazioni per definire una ricerca iniziata in sede milanese, sotto gli auspici lombardi di Cesare Tallone, continuata all’insegna del divisionismo di Segantini e di Previati, e risolta con quel punto d’arrivo, nel 1912, che veniva a negar tutto, nel nome di Cézanne e del cubismo.
Nei suoi viaggi a Parigi e a Londra il C. aveva saputo vedere, aveva saputo riconoscere quale fosse il vero indirizzo dell’arte moderna. Nella compenetrazione della figura, con l’ambiente, attraverso la ricostruzione strutturale delle forme ispirata dalla pittura cubista, il C. aveva creato quella sintesi di elementi linguistici cubisti e di intuizioni futuriste che Boccioni, in sede teorica, aveva più volte negato. Il C. vedeva col suo occhio romanico la “simultaneità”, costruendo una immagine, d’un rilievo scultoreo, per masse contrapposte che, nella Donna al balcone, facevano blocco in una soluzione plastica nuova, certamente più plausibile dei collages e delle composizioni del ’14 e del ’15, più fedeli ai principi della estetica futurista. Ma quella volontà costruttiva era la componente fondamentale dell’arte del C.; era la base sulla quale, consumata l’esperienza dell’attivismo futurista, il pittore avrebbe creato gli spazi poetici della nuova avventura “metafisica”.
Nel 1915 la campagna interventista ebbe il C. tra i più fieri sostenitori, ma ormai il pittore si era allontanato dal futurismo. Si avvicinò in quel periodo al gruppo fiorentino della Voce (diretta allora da G. De Robertis), alla quale collaborò con alcuni scritti significativi (Parlata su Giotto, 31 marzo 1916; PaoloUccello costruttore, 30 sett. 1916).
Il 1916 e il 1917 furono gli anni della “seconda rivelazione” per il C.: quella appunto dell’arte metafisica, durante il soggiorno a Ferrara – dove venne ricoverato nell’ospedale militare dopo poco che era stato chiamato alle armi -, accanto a G. De Chirico. Nel 1916 dipinse Il gentiluomo ubriaco (1916: Milano, coll. A. Frua). Vennero poi, nel 1917, La camera incantata (Milano, coll. E. Jesi), La musa metafisica (ibid.), Madre e figlio (ibid.), Il cavaliere occidentale (Milano, coll. G. Mattioli), Solitudine (Zurigo, coll. Giedion), ai quali si aggiunsero, nel 1918, l’Ovale delle apparizioni (Milano, coll. R. lucker) e, nel 1921, L’amante dell’ingegnere (Milano, coll. Mattioli) e Il pino sul mare (Roma, coll. A. Casella).
Il C., riallacciandosi a Ferrara all’arte italiana del Quattrocento, scopriva un rapporto certamente più persuasivo di quello tentato con Il fanciullo prodigio (1915: Torino, coll. privata), in un ritorno all’arte dei primitivi, sia pure partendo da Giotto.
La pittura “metafisica” era più congeniale al C. delle battaglie futuriste, ironizzate dal Longhi, non troppo tenero, d’altronde, nemmeno con le surreali fantasie dechirichiane: “Il quattrocento diveniva il palcoscenico per l’opera delli pupi metafisici, per i convitati di pietra” scriveva, alludendo al teatrino prospettico e ai manichini (C. C., Milano 1937).
A Ferrara, il C. poté rinnovare la propria visione, trasformando i suggerimenti delle architetture antiche e di una scuola pittorica, in cui emergevano Cosmè Tura, Ercole De Roberti e Francesco del Cossa, nella realtà di una intuizione poetica attuale, densa di significati enigmatici, allusiva e spesso bizzarra. Erano possibili gli equivoci “letterari” nelle storie mitologiche dei manichini e nelle stesse composizioni di oggetti, disparati e discordi; ma il nucleo del motivo fantastico si sviluppava quasi sempre sullo schema architettonico dei piani geometrici associati come in una ideale pittura preastratta.
èindubbio che De Chirico, pur “cresciuto in una tradizione per nulla italiana” (Longhi), abbia offerto alla severa meditazione del C. l’idea di uno spazio arcano, in cui si fissano “apparizioni” senza tempo, ma oggetti e figure sono inseriti, come valori strettamente pittorici, in un contesto unitario e autonomo (Camera incantata [1917]:Milano, coll. Jesi, e Penelope [1917]:Milano, coll. C. Frua). è per il C. un momento di assoluta libertà fantastica, al di fuori di ogni richiamo o ritorno all’ordine. I manichini erano fantasmi reali, visti da lui a Ferrara, appoggiati a un muro e illuminati da un raggio di luna, e gli oggetti acquistavano la magia segreta dei rapporti spaziali e delle illuminazioni silenti (Natura morta con la squadra [1917: Milano, coll. Jucker]; Natura morta metafisica col busto in gesso [1919: Milano, coll. Jesi]). C’è nell’arte del C. una lenta evoluzione, dalla quale nascono i nuovi motivi, sui primi ricordi giotteschi, di Ilpino solitario e di Il pino sul mare (1921). “Con questo dipinto – scrisse in La mia vita – io cercavo di creare, per quanto le mie capacità lo consentissero, una rappresentazione mitica della natura”. Si avvertiva già l’inizio di quell'”ordine nuovo”, che egli andava maturando con studi appassionati sulla “realtà naturale” dal 1918 in poi, nel superamento dei motivi più propriamente dechirichiani, evidenti in Madre e figlio, La musa metafisica, e L’ovale delle apparizioni.
Nel 1919, tornato a Milano, si sposò con Ines Minoja dalla quale ebbe, nel 1922, l’unico figlio, Massimo. Nel 1918 aveva iniziato la collaborazione alla rivista Valori plastici diretta da M. Broglio; e dal 1922, fino al 1938, fu critico d’arte del quotidiano L’Ambrosiano.Dal 1939 al 1952 fu professore all’Accademia di Brera.
Soggiornò nell’estate del 1921 a Moneglia, e nel 1923 a Camogli: si avviava così alla riscoperta della natura, “a contatto col mare, con le rupi solitarie e i vasti cieli della Liguria” (Longhi). E tale “riscoperta” assume l’aspetto, nel 1923, delle Vele nel porto (Firenze, coll. Longhi), una delle opere più concluse, nella semplicità costruttiva di uno schema giottesco elementare; in netta antitesi con l’impressione, con la rapida nota dal vero.
Sulla via iniziata con la Natura morta con la squadra attraverso un processo di eliminazione del particolare descrittivo, il C. riusciva ad esprimere il senso del mistero, che investe ogni aspetto e ogni gesto del vivere quotidiano, nella messa in scena trecentesca di L’attesa (1926: Roma, coll. A. Casella), che ha la sospensione attonita e l’incanto dell’attimo, in cui qualcosa “deve accadere”.
Roberto Longhi, che del C. è stato il critico e lo storico più attendibile, dice che L’attesa è “l’aspro tentativo d’ingranare le solitudini astratte della metafisica e la nuova cubatura paesistica in un soggetto intinto in quella poetica paesana forse messagli nell’orecchio da certi antichi toscani”. E la nuova idea del paesaggio si precisa, dopo altre prove, rinforzata da elementi cezanniani nel Meriggio (1927: Milano, coll. nel Cancello (Pilastri rossi, 1930: Roma, Gall. naz. d’arte mod.). Ma il cezannismo riguarda, ancora una volta, le strutture formali, mentre si fa luce, nelle composizioni ispirate dalle marine della Versilia (dal 1926, per diversi anni, l’artista passò l’estate a Forte dei Marmi), il ricordo delle pittura di Seurat, il quale interpreta modernamente le architetture quattrocentesche di Piero, velandole appena sotto lo sfarfallio luminoso del puntinismo scientifico. Il C. le pietrifica, le rende solide e compatte, trasferendo nelle severe marine tirreniche il sentimento dello spazio che animava le pagine fluviali di Une baignade e della Grande Jatte.Questo riferimento a Seurat è evidente soprattutto in I nuotatori (1932: Milano, coll. A. Giovanardi) e nel Barcaiolo (1930: Milano, coll. Pecorini-Zambler) e, con qualche ritorno metafisico, nel Mattino al mare (1928: Milano, coll. Mattioli) e nel Paesaggio marino (1932: Milano, coll. Jesi).
Tuttavia il C. più maturo, all’apice di una esperienza artistica troppo brevemente tracciata, il C. più vicino alla propria natura è già in nuce nel Cinquale (1926: Roma, coll. Giardini Caponeri) e nella Foce del Cinquale (1928: Milano, Civica Gall. d’arte mod.), dove l’orizzonte si allarga in un nuova prospettiva romantica, nello spazio più proprio alla contemplazione del solitario.
La Versilia è il luogo poetico in cui il C. inquadra le spiagge deserte coi capanni allineati, le marine agitate al soffio del libeccio, i moli con le barche e i velieri sotto un cielo minaccioso, i bagnanti come statue che sorgono dall’acqua, le case rustiche tra gli alberi. Alla Versilia rimase fedele, pur tra le parentesi dei viaggi, dei ritorni a Venezia, dei riposi in Valsesia, perché gli ricordava le origini, le ispirazioni degli antichi, in una solitudine non offesa dalle folle fragorose dei turisti di oggi. Vi aveva trovato la sua vena romantica, ma, come egli stesso scrisse nella sua autobiografia (La mia vita, 2 ediz., Milano 1945), la sua preoccupazione maggiore era questa: “Per me… non si può parlare di espressione di sentimenti pittorici senza tener calcolo soprattutto di questi elementi architettonici che subordinano a sé tutti i valori figurativi di forma e colore”.
Così dai Capanni sul mare (1937: Milano, coll. Jesi) il C. poté allargare la propria visione a Chiaravalle (1938: Firenze, collez. R. Longhi), alla Prostituta (1945: Milano, coll. Carrà), a Venezia (1946: Milano, coll. C. Tosi), alla Uvacon melograni (1951:Milano, coll. Carrà), a Marina a Camogli (1957: Milano, coll. A. Spagnolo), a Casa di Merate (1959: coll. Carrà), e a tante altre riprese di vecchi motivi, negli ultimi anni, Il C. conosceva le leggi che regolano la divisione armonica dei piani e degli spazi, e a quelle si affidava nella costruzione di un ordinato mondo fantastico. In ogni opera si sforzava di raggiungere la dimensione umana e morale degli antichi, che gli somigliavano: i creatori di santi, di angeli e di mostri delle cattedrali romaniche. Perché il C. era davvero il più antico e il più italiano dei pittori del Novecento.
Morì a Milano il 13 apr. 1966.
Dizionario biografico Treccani