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Nulla rimane della scolara di Hiroshima di Primo Levi

Primo Levi

Nulla rimane della scolara di Hiroshima

Poichè l’angoscia di ciascuno è la nostra
ancora riviviamo la tua, fanciulla scarna
che ti sei stretta convulsamente a tua madre
quasi volessi ripenetrare in lei
quando al meriggio il cielo si è fatto nero.

Invano, perché l’aria volta in veleno
é filtrata a cercarti per le finestre serrate
della tua casa tranquilla dalle robuste pareti
lieta già del tuo canto e del tuo timido riso.

Sono passati i secoli, la cenere si è pietrificata
a incarcerare per sempre codeste membra gentili.

Così tu rimani fra noi, contorto calco di gesso,
agonia senza fine, terribile testimonianza
di quanto importi agli dei l’orgoglioso nostro seme.

Ma nulla rimane fra noi della tua lontana sorella,
della fanciulla d’Olanda murata fra quattro mura
che pure scrisse la sua giovinezza senza domani:
la sua cenere muta é stata dispersa dal vento,
la sua breve vita rinchiusa in un quaderno sgualcito.

Nulla rimane della scolara di Hiroshima,
ombra confitta nel muro dalla luce di mille soli.

Vittima sacrificata sull’altare della paura.

Potenti della terra padroni di nuovi veleni,
tristi custodi segreti del tuono definitivo,
ci bastano d’assai le afflizioni donate dal cielo.

Prima di premere il dito, fermatevi e considerate.

Primo Levi
Vita e opere

 

LEVI, Primo. – Nacque a Torino, il 31 luglio 1919, da Cesare e da Ester Luzzati.

I genitori erano ebrei piemontesi (il padre, ingegnere, aveva talvolta soggiornato all’estero per lavoro), si erano sposati nel 1918 e dal matrimonio, oltre al L., al quale era stato dato il nome del nonno paterno, nacque anche una figlia, Anna Maria, nel 1921.

Nel 1934 il L. fu iscritto al ginnasio-liceo Massimo d’Azeglio di Torino, dal quale si licenziò nel 1937. Furono questi gli anni della sua prima formazione scientifica e dell’inizio della “vocazione chimica”, che si manifestarono e si svolsero parallelamente a una diligente carriera scolastica.

Il L. compensò l’istruzione ricevuta presso il liceo, che privilegiava il sapere umanistico su quello scientifico (“congiura gentiliana” la definì lo stesso L.), anche grazie alle letture che gli venivano procurate dal padre: “mio padre ha fatto caute pressioni per mandarmi dalla parte scientifica; anche lui era un bibliofilo, comperava libri a caso, e aveva passioni di autodidatta […]. A me comperava la bella serie di Mondadori di divulgazione scientifica, I cacciatori di microbiL’architettura delle cose, un primo libro sulla genetica che stava ancora nascendo – siamo all’inizio degli anni Trenta -, L’uomo questo sconosciuto di Carrell, che era di Bompiani; e una Introduzione alla stupidità umana di Wilkins, mi pare” (P. Levi – T. Regge, Dialogo, a cura di E. Ferrero, 2ª ed., Torino 1987, p. 12).

Negli anni del liceo il L. iniziò a compiere gite in montagna e successivamente questa abitudine divenne anche pratica dell’alpinismo. In una intervista del 1984 il L. rievoca le motivazioni, umanistiche e scientifiche insieme, del suo amore per la montagna.

“Attraverso quelle pagine [di Eugen Guido Lammer, Fontana di giovinezza; di Edward Whymper e di Alfred Frederick Mummery] era pervenuta fino a noi l’idea di misurarsi sempre con l’estremo e che l’essenziale è fare sempre il massimo […]. Ora, la passione della montagna era complice della passione per la chimica, nel senso di ritrovare in montagna gli elementi del sistema periodico, incastrati tra le rocce, incapsulati tra i ghiacci, e cercare di decifrare attraverso essi la natura della montagna, la sua struttura, il perché della forma di un canalino, la storia dell’architettura di un seracco” (P. Levi, Conversazioni e interviste, 1963-1987, a cura di M. Belpoliti, Torino 1997, p. 30).

Nel 1937 si iscrisse alla facoltà di scienze dell’Università di Torino per seguire il corso di laurea in chimica. Come conseguenza dell’emanazione delle leggi sulla razza da parte del regime fascista nel novembre 1938, il L. ebbe difficoltà a trovare un docente che gli permettesse di fare una tesi sperimentale e non compilativa: riuscì in ogni caso a laurearsi nel luglio del 1941, ottenendo la votazione piena e la lode.

Subito dopo la laurea iniziò per il L. la pressante ricerca di un lavoro a causa della malattia del padre, che morì nel 1942. Il L. fu impiegato, dal dicembre 1941 al giugno 1942, in una cava di amianto che si trovava nei pressi di Lanzo, dove, a causa delle leggi razziali, non poteva figurare come lavoratore regolare e dove aveva il compito di isolare ed estrarre dai materiali di risulta della cava il nichel che sarebbe servito all’industria bellica. Successivamente il L. trovò un lavoro più remunerativo e regolare presso la Wander, un’azienda svizzera di medicinali con sede a Milano, dove ebbe il compito di studiare i composti chimici utili a curare il diabete.

Questo nuovo impiego costrinse il L. a lasciare Torino per trasferirsi a Milano. Qui frequentò assiduamente un gruppo di giovani ebrei di origine torinese, tra i quali sua cugina, Ada Della Torre – presso la quale egli soggiornava -, Eugenio Gentili Tedeschi, Silvio Ortona, Carla Consonni, Emilio Dierna e Vanda Maestro, che, deportata con il L., morì ad Auschwitz.

Alla data dell’8 sett. 1943 il L., che, come i suoi amici milanesi, era già entrato in contatto con alcuni membri del Partito d’azione (Pd’A) e del Comitato di liberazione nazionale (CLN), lasciò Milano per entrare a far parte di una banda partigiana che si stava costituendo in Val d’Aosta. Il 13 dic. 1943, fu arrestato dalle milizie fasciste con altri compagni nei pressi di Saint-Vincent e di lì condotto ad Aosta. Dichiaratosi ebreo al momento dell’arresto, alla fine di gennaio 1944 fu trasferito nel campo di internamento e di concentramento di Carpi-Fossoli, dove si trovavano molti altri ebrei italiani. A febbraio il campo fu preso in gestione dai Tedeschi, che organizzarono subito il trasferimento dei prigionieri verso i territori del Reich. Il 22 febbraio partì il convoglio che in cinque giorni avrebbe portato il L. con circa altri seicentocinquanta ebrei italiani verso il campo di sterminio di Auschwitz, in Polonia. Il L. trascorse ad Auschwitz circa un anno, riuscendo a sopravvivere fino al 27 genn. 1945, quando i soldati sovietici entrarono nel campo.

In Se questo è un uomo, scritto subito dopo il ritorno a Torino, il L. ha fatto opera di testimonianza della condizione non umana subita dagli internati ad Auschwitz e ha narrato le circostanze grazie alle quali egli stesso riuscì a non essere condotto nelle camere a gas o a trovare la morte per malattia o per fame. Dopo la sconfitta di Stalingrado l’Esercito tedesco aveva, infatti, un accresciuto bisogno di manodopera e quindi gli uomini ebrei più giovani e abili al lavoro, invece di essere condotti immediatamente a morte, furono impiegati come lavoratori nel campo o presso le fabbriche dei dintorni.

Il L. fu quindi internato in quella parte del campo di Auschwitz che si trovava nella località di Monowitz, da dove ogni mattina si recava al lavoro presso la Buna, una fabbrica di gomma. La conoscenza di un tedesco elementare, appreso su un manuale di chimica negli anni dell’università, facilitò il L., soprattutto nella possibilità di comprendere gli ordini che gli venivano impartiti. Nel giugno il L. conobbe Lorenzo Perrone, un operaio di Fossano che lavorava presso una fabbrica di Auschwitz da civile non internato, e grazie a lui poté avere qualche razione in più di cibo e riuscì a inviare due biglietti alla madre e a ricevere da lei risposta. A novembre fu chiamato a lavorare nel laboratorio chimico del campo, dove riuscì a non soffrire troppo per il freddo e la fame. Pochi giorni prima che i Tedeschi, incalzati ormai dalle truppe dell’Armata rossa, abbandonassero il campo il L. si ammalò, e fu anche questa una circostanza in qualche modo fortunata perché riuscì a evitargli di essere portato via con una marcia forzata durante la quale morirono quasi tutti i ventimila evacuati, tra i quali vi era anche Alberto Dalla Volta, l’amico con il quale il L. aveva condiviso l’esperienza del lager.

Dall’ingresso dei Russi ad Auschwitz, il 27 genn. 1945, al ritorno a Torino passarono circa nove mesi, trascorsi in un lungo e tortuoso tragitto che dalla Polonia lo portò in Unione Sovietica, Romania, Ungheria, Austria e infine Italia; a Torino giunse solo il 19 ott. 1945.

Nel gennaio 1946 il L. iniziò a lavorare presso la fabbrica di vernici Duco-Montecatini, che si trovava ad Avigliana, poco distante da Torino, dalla quale si licenziò l’anno successivo per essere assunto, dopo una breve esperienza di lavoro autonomo in società con l’amico Alberto Salmoni, presso la fabbrica torinese di vernici SIVA (Società italiana vernici e affini), dove rimase impiegato per trent’anni. Nel 1947 sposò Lucia Morpurgo, con la quale si era fidanzato l’anno precedente e dalla quale ebbe due figli: Lisa Lorenza (il secondo nome fu dato alla bambina in omaggio a Lorenzo Perrone), nata nel 1948, e Renzo, nato nel 1957.

Immediatamente dopo il ritorno da Auschwitz il L. avvertì l’urgenza di testimoniare sulle condizioni inumane cui erano stati sottoposti gli internati nei campi di sterminio nazisti. La necessità e la volontà di testimoniare furono attuate dal L. in forme diverse: per mezzo del racconto orale a parenti e amici; attraverso la scrittura scientifica, con la redazione di un saggio scritto con un compagno di prigionia, il medico Leonardo Debenedetti (Rapporto sulla organizzazione igienico-sanitaria dei campi di concentramento per ebrei di Monowitz [Auschwitz – Alta Slesia], in Minerva medica, XXXVII [1946], pp. 535-544); con la scrittura di alcune poesie “concise e sanguinose”; e con la redazione del suo libro più importante e più noto, Se questo è un uomo.

Il libro fu scritto nel 1946, durante i viaggi in treno per raggiungere Avigliana e durante le pause dal lavoro in fabbrica, benché i primi tentativi di mettere per iscritto l’esperienza del lager fossero stati compiuti quando il L. era ancora prigioniero.

Chiosando il passo di Se questo è un uomo in cui, per “la pena di ricordarsi […] prendo la matita e il quaderno e scrivo quello che non saprei dire a nessuno” (P. Levi, Opere, 1997, I, p. 138), il L. affermò: “era talmente forte in noi il bisogno di raccontare, che il libro avevo incominciato a scriverlo là, in quel laboratorio tedesco pieno di gelo, di guerra e di sguardi indiscreti, benché sapessi che non avrei potuto in alcun modo conservare quegli appunti scarabocchiati alla meglio, che avrei dovuto buttarli via subito, perché se mi fossero stati trovati addosso mi sarebbero costati la vita” (ibid., p. 173).

Terminata la composizione dell’opera alla fine del 1946, il L. tentò senza successo di farla pubblicare presso qualche editore importante, tra cui Einaudi. Grazie all’intercessione di A. Galante Garrone, il manoscritto giunse infine a F. Antonicelli, che decise di pubblicarlo presso la casa editrice torinese Da Silva. Il libro uscì nel 1947, ebbe una diffusione piuttosto scarsa e tra le poche recensioni di cui fu oggetto sono da segnalare quelle di A. Cajumi in La Stampa (26 nov. 1947) e di I. Calvino in l’Unità (6 maggio 1948).

La prima metà degli anni Cinquanta fu caratterizzata per il L. dall’impegno nel lavoro presso la SIVA e dalla collaborazione, iniziata nel 1952, con le Edizioni scientifiche Einaudi in qualità di traduttore e consulente editoriale. Il redattore scientifico della Einaudi, P. Boringhieri, che dal 1957 sarebbe divenuto editore in proprio fondando la casa editrice Boringhieri, propose a Einaudi di ripubblicare Se questo è un uomo, ricevendo di nuovo una tiepida risposta. Solo nel 1955, quando le tematiche legate alla deportazione nei campi di concentramento iniziarono ad affacciarsi nella cultura italiana (in quell’anno si tenne a Torino una mostra sul tema), Einaudi decise di firmare un contratto con il L. per la riedizione dell’opera, che dovette però attendere ancora fino al 1958 per essere pubblicata. Il L. era nel frattempo ritornato sul testo di Se questo è un uomo, modificandolo ed ampliandolo in alcune parti (cfr. Tesio, 1977), e aveva iniziato a scrivere il racconto degli episodi più significativi avvenuti durante i mesi del viaggio di ritorno da Auschwitz trascorsi tra i campi di transito dell’Europa orientale e dell’URSS. Contemporaneamente alla stesura di questo nuovo libro, che sarebbe stato pubblicato da Einaudi nel 1963 con il titolo La tregua, il L. scrisse alcuni racconti fantastici e scientifici che apparvero in diversi periodici e quotidiani.

La tregua è un libro molto diverso da Se questo è un uomo, al quale pure si accosta per struttura (il procedere per racconti) e in quanto seguito ideale delle vicende narrate. Dal mondo infero di Se questo è un uomo il L. passa infatti a testimoniare di un purgatorio, di un mondo sospeso tra il lager e la vita normale, e di un tempo che è tregua dall’orrore e dall’incubo che l’orrore possa tornare. La tregua è stato accostato al genere romanzo picaresco per la varietà delle avventure che vi sono narrate e dei personaggi che lo popolano.

Nel 1962 il L. lavorò a un adattamento radiofonico di Se questo è un uomo; nel 1963 La tregua, dopo essere arrivato terzo al premio Strega, vinse il premio Campiello. Nel 1966 sotto lo pseudonimo Damiano Malabaila, usato su consiglio dell’editore, uscirono a Torino per Einaudi le Storie naturali, una raccolta di racconti che il L. aveva scritto e già pubblicato in diversi giornali nel corso degli anni Sessanta. Nel 1971 uscì un’altra raccolta di racconti, Vizio di forma (ibid.), questa volta pubblicata col suo nome.

È nel momento della pubblicazione delle Storie naturali che nacque nel L. e nella critica l’idea dello “scrittore dimezzato”. In una intervista del 1966 il L. affermava “Io sono un anfibio, un centauro (ho anche scritto dei racconti sui centauri). E mi pare che l’ambiguità della fantascienza rispecchi il mio destino attuale. Io sono diviso in due metà. Una è quella della fabbrica, sono un tecnico, un chimico. Un’altra, invece, è totalmente distaccata dalla prima, ed è quella nella quale scrivo, rispondo alle interviste, lavoro sulle mie esperienze passate e presenti” (Conversazioni e interviste, 1963-1987, cit., p. 107).

Le due attività parallele di scrittore e di chimico proseguirono fino al 1975, quando il L. si licenziò dalla SIVA, della quale rimase consulente fino al 1977, per dedicarsi alla scrittura.

Nel 1975 il L. pubblicò per Einaudi Il sistema periodico, originale raccolta di racconti di carattere autobiografico accomunati dal titolo ripreso dagli elementi della tavola di Mendeleev. Talvolta gli elementi chimici entrano direttamente nella narrazione, altre volte sono simboli, come nel caso del primo racconto Argon, in cui il L. racconta delle proprie origini ebraiche e paragona il gas nobile, inerte e raro ai suoi antenati.

Nel 1978 uscì, ancora per Einaudi, La chiave a stella, che l’anno successivo vinse il premio Strega. I racconti del montatore Tino Faussone, che andava per il mondo a costruire ponti e impianti petroliferi, formano uno dei pochi testi della letteratura italiana dedicati al mondo del lavoro.

Il libro, caratterizzato da una lingua che presenta elementi di dialetto piemontese e un lessico tecnico, nacque dai racconti che lo stesso L. aveva ascoltato durante gli anni del suo lavoro in Italia e all’estero; particolarmente importante per la sua ideazione fu un soggiorno del L. presso la fabbrica della FIAT a Togliattigrad.

Nel 1981 uscì per Einaudi l’antologia personale La ricerca delle radici, una raccolta di testi diversi e significativi nell’esperienza di lettore del L., che tra Giobbe e i buchi neri si muove lungo quattro percorsi diversi: la salvazione del capire, la salvazione del riso, la statura dell’uomo e l’uomo che soffre ingiustamente. Dello stesso anno è la pubblicazione, ancora per Einaudi, di Lilìt e altri racconti, trentotto racconti composti tra il 1975 e il 1981 e divisi in tre sezioni: Passato prossimo, che include racconti legati al lager; Futuro anteriore, che comprende racconti di fantascienza; e Presente indicativo, racconti di argomento diverso accomunati dal fatto di essere “indicativi” dell’attualità.

Negli anni tra il 1979 e il 1982 il L. aveva intrapreso la stesura del romanzo Se non ora quando, la storia di una banda partigiana russa composta esclusivamente di giovani ebrei. Motivi ispiratori dell’opera erano stati un racconto che gli aveva fatto molti anni prima l’amico Emilio Vita Finzi sui partigiani ebrei (che si era sovrapposto all’episodio narrato alla fine de La tregua dei giovani sionisti dell’Europa orientale che volevano raggiungere la Palestina) e la volontà di controbattere l’idea che gli ebrei sarebbero stati solo attori passivi nella seconda guerra mondiale. Il libro uscì in aprile, presso Einaudi, e vinse i premi Viareggio e il Campiello.

Per costruire un vero e proprio romanzo storico il L. studiò l’yiddish e si documentò sulle attività delle bande di partigiani ebrei; di una di queste bande lesse il diario conservato presso la Biblioteca nazionale di Parigi.

Nel 1982 il L. tornò ad Auschwitz per la seconda volta. Mentre la prima visita, nel 1965, aveva avuto un carattere di commemorazione formale, questa seconda fu più raccolta e l’emozione provata dal L. fu più profonda. Nello stesso anno fu tra i promotori di una raccolta di firme contro l’invasione israeliana del Libano.

Nel 1983, per la collana einaudiana “Scrittori tradotti da scrittori” uscì la sua traduzione del Processo di F. Kafka. Tra il 1983 e il 1984 tradusse due libri di C. Lévi-Strauss, La via delle maschere (Torino 1984) e Lo sguardo da lontano (ibid. 1985).

Del giugno 1984 è il ricchissimo Dialogo con Tullio Regge, nato da una iniziativa delle Edizioni di Comunità (P. Levi – T. Regge, Dialogo, a cura di E. Ferrero, Milano 1984). Per l’editore Garzanti uscì nello stesso anno la raccolta Ad ora incerta, che comprende le poesie già raccolte nel 1975 presso Scheiwiller (e risalenti al periodo immediatamente successivo al ritorno dal lager), altre più recenti (del 1983-84) e alcune traduzioni.

“Adorno aveva detto che “dopo Auschwitz non si può più fare poesia”. La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro […]. In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz” (Conversazioni e interviste, 1963-1987, cit., p. 137).

Nel 1985 con il titolo L’altrui mestiere uscì per Einaudi una serie di scritti di carattere vario già apparsi nel quotidiano La Stampa e in altri periodici.

Legati alla promozione dei suoi libri sono i viaggi compiuti negli Stati Uniti nel 1985 e a Londra nell’aprile 1986. Qui incontrò Philip Roth, al quale qualche mese più tardi concesse una lunga intervista che uscì in ottobre su The New York Review of books.

Fin dal 1979 il L. aveva iniziato a lavorare a un nuovo libro sull’esperienza del lager. Si trattava questa volta non di un libro di testimonianza ma di un saggio di riflessione che nasceva dall’esigenza di chiarire alcuni aspetti del sistema dei campi di sterminio che si stavano perdendo per il trascorrere del tempo e per la nascita del cosiddetto negazionismo. Per questo libro, che uscì per Einaudi nel 1986, il L. riprese il titolo del capitolo centrale di Se questo è un uomoI sommersi e i salvati, nel quale era già descritta la grande opposizione esistente tra gli uomini nel lager.

Non quella tra buoni e cattivi, ma tra coloro che non riescono a sopravvivere (i sommersi) e coloro che invece ce la fanno (i salvati). Degli otto capitoli che compongono il testo, particolare rilevanza ha quello dedicato alla “zona grigia”, ossia quello spazio che separa le vittime dai persecutori, che non è vuoto bensì pieno di figure intermedie di prigionieri per vari motivi privilegiati che si assimilavano ai persecutori.

I sommersi e i salvati fu l’ultimo libro pubblicato dal L., che morì togliendosi la vita l’11 apr. 1987 nella stessa casa dove era nato e dove aveva vissuto.

Il L. ha svolto un’attività continua e generosa, sia attraverso la scrittura sia attraverso i molti incontri e interviste, di testimone del significato non solo storico, ma anche antropologico dell’universo concentrazionario. Figura complessa di uomo e di scrittore, il L. ha siglato con Se questo è un uomo, “studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano”, come viene definito dallo stesso L. nella prefazione (v. Opere, I, p. 5), uno dei classici della letteratura e del pensiero del Novecento e, con I sommersi e i salvati, ha lasciato in eredità alla cultura italiana un modello di scrittura saggistica di rara tensione morale e conoscitiva.

Prima della morte del L. era già stata progettata dall’editore Einaudi una raccolta complessiva dei suoi scritti: nel 1988 apparve nella collana “Biblioteca dell’Orsa” il primo volume delle Opere, che comprendeva, per usare le parole dell’editore, “i libri di più schietta impronta autobiografica”, introdotto dal saggio di C. Cases, L’ordine delle cose e l’ordine delle parole; nel 1989 uscì il secondo volume, che comprendeva i romanzi e le poesie, con un saggio introduttivo di C. Segre; nel 1990 fu pubblicato il terzo volume contenente i racconti e i saggi, con lo scritto di P.V. Mengaldo dedicato a Lingua e scrittura in Levi. Nel 1997, a cura di M. Belpoliti e con una introduzione di D. Del Giudice le Opere del L. sono state di nuovo raccolte da Einaudi in una diversa collana (“Nuova Universale Einaudi”). In questo caso i libri del L. sono in ordine cronologico e arricchiti da una scelta di scritti vari (articoli, prefazioni, interventi a convegni) mai raccolti prima, da appendici, da note ai testi e dalla Bibliografia degli scritti di P. L. (pp. CIII-CXV).

Le molte interviste rilasciate dal L., che si concentrano soprattutto tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, sono state raccolte parzialmente in: G. Poli – G. Calcagno, Echi di una voce perduta. Incontri, interviste e conversazioni con P. L., Milano 1992; e P. Levi, Conversazioni e interviste 1963-1987, cit.; una Bibliografia delle conversazioni e delle interviste con P. L. apparse su quotidiani e periodici è in P. Levi, Opere, a cura di M. Belpoliti, Torino 1997, I, pp. CXVII-CXXVI.

Tutto da compiere è il lavoro sugli inediti e sulle diverse stesure dei testi del L., in quanto i relativi materiali non sono ancora a disposizione degli studiosi.

da Dizionario Biografico Treccani