Quando andrò in paradiso
non voglio che una campana
lunga sappia di tegola
all’alba – d’acqua piovana.
Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo.
Ci andrò rubando (forse
di bocca) dei pezzettini
di pane ai miei due bambini.
Ma là sentirò alitare
la luce nera del mare
fra le mie ciglia, e… forse
(forse) sul belvedere
dove si sta in vestaglia,
chissà che fra la ragazzaglia
aizzata (fra le leggiadre
giovani in libera uscita
con cipria e odor di vita
viva) non riconosca
sotto un fanale mia madre.
Con lei mi metterò a guardare
le candide luci sul mare.
Staremo alla ringhiera
di ferro – saremo soli
e fidanzati, come
mai in tanti anni siam stati.
E quando le si farà a puntini,
al brivido della ringhiera,
la pelle lungo le braccia,
allora con la sua diaccia
spalla se n’andrà lontana:
la voce le si farà di cera
nel buio che la assottiglia,
dicendo “Giorgio, oh mio Giorgio
caro: tu hai una famiglia.”
E io dovrò ridiscendere,
forse tornare a Roma.
Dovrò tornare a attendere
(forse) che una paloma
bIanca da una canzone per radio,
sulla mia stanca
spalla si posi. E alfine
(alfine) dovrò riporre
la penna, chiuder la càntera:
“É festa”, dire a Rina
e al maschio, e alla mia bambina.
E il cuore lo avrò di cenere
udendo quella campana,
udendo sapor di tegole,
l’inverno dell’acqua piovana.
Ma no! se mi sarò deciso
un giorno, pel paradiso
io prenderò l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.
Ruberò anche una rosa
che poi, dolce mia sposa,
ti muterò in veleno
lasciandoti a pianterreno
mite per dirmi: “Ciao,
scrivimi qualche volta,”
mentre chiusa la porta
e allentatosi il freno
un brivido il vetro ha scosso.
E allora sarò commosso
fino a rompermi il cuore:
io sentirò crollare
sui tegoli le mie più amare
lacrime, e dirò “Chi suona,
chi suona questa campana
d’acqua che lava altr’acqua
piovana e non mi perdona?”
E mentre, stando a terreno,
mite tu dirai: “Ciao, scrivi,”
ancora scuotendo il freno
un poco i vetri, tra i vivi
viva col tuo fazzoletto
timida a sospirare
io ti vedrò restare
sola sopra la terra:
proprio come il giorno stesso
che ti lasciai per la guerra.
Nato a Livorno nel 1912, Giorgio Caproni crebbe a Genova dove, interrotti gli studi musicali, si volse presto alla letteratura. Richiamato nel 1939, combatté sul fronte occidentale e restò con i partigiani in Val Trebbia fino alla Liberazione. Trasferitosi a Roma, fu critico della Fiera Letteraria, del Punto e della Nazione, oltre che traduttore. Nel 1982 l’Accademia dei Lincei gli ha conferito il Premio Feltrinelli per la Poesia. È morto a Roma il 22 gennaio 1990. La sua poesia, formatasi nell’ambito dell’ermetismo ma con ascendenze al vocianesimo ligure (da Sbarbaro a Boine), ha mirato a immettere nelle rarefazioni analogiche, proprie del primo, il lievito di un autobiografismo tra risentito e gentile, tra alacre ed elegiaco, e nei modi della poetica della parola quelli della poesia tradizionale, trovando la sua soluzione più felice in un tono medio, di canzonetta tra classica e popolareggiante. Il dato essenziale della modernità di Giorgio Caproni è quella particolare musica cui si deve la naturalezza con la quale il poeta passa, senza mutare voce, dal quotidiano all’astratto, dal colore al disegno, dal colloquiale all’epigrafico, dal domestico al metafisico. Temi preferiti della sua poesia, sicuramente una delle più importanti esperienze letterarie del Novecento, sono il viaggio, la frontiera, le terre di nessuno con i loro paesaggi solitari e le loro rare apparizioni e, infine, la caccia a un’imprevedibile preda, in un ossessivo scambio di ruoli tra il cacciatore e la preda stessa. Unico rifugio umano, sembra dirci Giorgio Caproni, è proprio l’incerto confine tra il vero e l’immaginario, tra il certo e il possibile.
Tra le sue opere ricordiamo Come un’allegoria (1936), Cronistoria (1943), Stanze della funicolare (1952), Il passaggio d’Enea, prime e nuove poesie raccolte (1956), Il seme del piangere (1959), Congedo del viaggiatore cerimonioso e altre prosopopee (1965), Il “Terzo libro” e altre cose (1968), Il muro della terra (1975), Il franco cacciatore (1982), Il conte di Kevenhüller (1986) e il volume complessivo Poesie 1932-1986-1989. In prosa ha scritto un diario di guerra (Giorni aperti, 1942), altre pagine evocative (Il gelo della mattina, 1954), racconti (Il labirinto, 1984). Ha tradotto finemente opere di Apollinaire, Proust, Céline, Cendrars. Una nuova raccolta di poesie, in parte già preparata dall’autore, è uscita postuma a cura di Giorgio Agamben (Res amissa, 1991).