Il prete di Varlungo fa l’amore con monna Belcolore e le lascia
in pegno il mantello; avuto in prestito da lei un mortaio,
glielo rimanda e le fa chiedere il mantello lasciato per pegno;
la buona donna glielo restituisce con un motto.
Sia gli uomini che le donne commentarono ciò che Gulfardo
aveva fatto all’ingorda milanese.
Frattanto la regina, sorridendo, si rivolse a Panfilo, imponendogli di continuare.
E Panfilo cominciò dicendo che voleva raccontare una novelletta contro coloro che continuamente offendevano gli uomini, che, a loro volta,
non potevano ricambiare le offese, cioè contro i preti.
Essi avevano bandito una crociata contro le mogli e, quando riuscivano a mettere sotto una, provavano una grandissima soddisfazione, come se avessero
portato il sultano legato da Alessandria ad Avignone.
Cosa che i miseri uomini secolari non possono fare contro di loro, per vendicarsi.
Egli, dunque, voleva raccontare un amorazzo contadino, piuttosto breve, divertente per la conclusione, dal quale avrebbero potuto ben comprendere che ai preti non bisognava credere sempre. A Varlungo, un villaggio lì vicino, come ciascuna di loro poteva aver udito, visse un prete valente e gagliardo nei rapporti con le donne.
Egli, anche se non sapeva leggere troppo bene, pure, con parole buone e sante, la domenica, ai piedi dell’olmo, ricreava i suoi parrocchiani, e, meglio ancora, le loro donne, che, quando i mariti erano lontani, visitava più di quanto avesse fatto alcun altro prete prima di lui.
Portava loro roba da vendersi durante le feste, acqua benedetta, pezzi di candela, talvolta fino a casa, dando la benedizione.
Tra le sue parrocchiane ce n’era una che gli piaceva più delle altre, che si chiamava monna Belcolore, moglie di un contadino, di nome Bentiveglia del Mazzo.
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